Bora Baboci, João Freitas, Enej Gala, Albano Hernandez, Mehdi-Georges Lahlou, Mirthe Klück, Leonardo Meoni, Giovanni Oberti, Oscar Abraham Pabón, Eugenia Vanni, Xiao Zhiyu, Francesco Carone
Bora Baboci, Adam Bilardi, Enej Gala, Cecilia Granara, Julien Monnerie, Jessy Razafimandimby, Ambra Viviani
Giulio Delvè, João Freitas, Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Giovanni Oberti, Oscar Abraham Pabón, Namasal Siedlecki, Jamie Sneider, Eugenia Vanni, Xiao Zhiyu
João Freitas, Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Oscar Abraham Pabón, Eugenia Vanni
Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Eugenia Vanni, Serena Vestrucci
Sara Enrico, Helena Hladilovà, Pietro Manzo, Giovanni Oberti
Prima di tutto per noi è stata l’idea di paesaggio, e forse, prima ancora l’idea del movimento. Più che un’idea diremmo una sensazione, una raffica di vento che porta dentro qualcosa, o forse la porta anche fuori. E poi, vedi, c’è subito stata questa idea di dentro e fuori, di limite invisibile dove vive il vento, e con lui i luoghi e le cose. E c’è stata anche l’idea del paese o della città, è sempre stata solo un’immagine di cui non conoscevamo il nome, ma ne sentivamo rumori e odori.
Prima è stato un esercizio che riguardava il paesaggio, lo spazio, e la sua scomposizione.
Cosa succede se togliamo le cose dai loro luoghi: ne immaginavamo l’impronta al suolo e sognavamo di affondarci le dita. Poi sono stati appunti, che sono diventati immagini: come si racconta l’ombra dei passi? L’aria che riempie le querce?
Poi ci hanno chiesto se ne conoscevamo il tempo: i secoli, gli anni e i mesi li abita tutti.
Il giorno che nel sogno era lunedì,
era il primo giorno di sole e faceva freddo.
La notte,
le macchine segnavano le luci sulle pareti e dentro alle coperte
E di giorno cercavo l’ombra dei passi, ciò che riempie lo spazio e vive tra le cose
Avrò avuto venticinque anni
e cadeva la luna;
cadeva la luna, e non ho mai avuto il tempo.
Guardavo l’odore pieno che annuncia la pioggia
Aspettavo quando pioveva, sul tetto della periferia, così che i muri si potessero parlare,
e la piega sotto i tuoi occhi catturare la luce.
Poi un giorno capivo
le pieghe fradice sulle schiene degli operai
i vestiti vuoti prendere il vento
le ombre appese delle scale
Un giorno capivo
Che prima di tutto ci sono i luoghi,
poi chi li abita
E che lì dove striscia il grigio gli animali in gabbia devono fare sogni simili ai miei.
Salii sulle sue gambe,
senza ombra di dubbio, quelle di un gigante.
Cosa faccio di queste gambe impossibili,
con i piedi di vento,
non arrivo al di là del recinto, non ci arrivo di fuori
dove gli animali si rincorrono e scompaiono,
dove le ossa di cane,
le partite di calcio,
e appena uno scheletro
agli angoli della terra
che nessuno abita,
e tutte le altre storie.
“Le tenebre si spandono come un’ombra livida dovunque, ma io non posso fare niente”
Io chiusi gli occhi.
Come la raccontiamo la terra dei rumori,
che si spezza,
che si muove,
che ci nutre, contraendosi,
che ci assorbe, alla fine,
e ci rende immortali.
“Ma io di più non posso fare.”
Quando tocco quelle mani ruvide di terra
vedo una città in mezzo al mare,
Ora che ieri notte ho sognato di sognarti, e ho conosciuto le tue,
di mani,
bagnate da un soffio di baci tra le dita,
ora la notte, è la città del vento.
Cadeva la luna.
Micol Teora e Leonardo Meoni